Intervista a Francesca Persegati, già Responsabile del Laboratorio di Restauro Dipinti e Materiali Lignei dei Musei Vaticani
Tra passione e professionalità
È stata la prima donna del Laboratorio Restauro Dipinti e Materiali Lignei dei Musei Vaticani e, dal 2017, ne è stata nominata responsabile. Dal 1° agosto scorso è in congedo, occasione per tracciare un bilancio della sua attività all’interno di uno dei Laboratori più prestigiosi dei Musei Vaticani, dove ha svolto la sua professione per 35 anni. È Francesca Persegati che, in questa intervista a www.vaticanstate.va, ripercorre le tappe del Laboratorio e le sfide affrontate, come il restauro del Linteo Funebre dei Musei Vaticani chiamato La Dame du Vatican del III secolo d.C.
Ci racconta com’è iniziato il suo percorso nel mondo del restauro?
Ho sempre avuto una passione per le arti visive, a partire dalla formazione liceale, per proseguire con l’Istituto Europeo di Design fino a decidere di accettare la sfida del concorso per accedere alla massima istituzione nel settore della conservazione, L’istituto Centrale per il Restauro, dove entrai nel 1981: erano gli inizi del restauro della Cappella Sistina, ne vissi tutte le fasi, dibattiti, controversie e mi appassionai grazie anche alla professionalità e capacità comunicativa di Gianluigi Colalucci, allora Capo laboratorio, nonché responsabile del progetto sui dipinti murali di Michelangelo.
Cosa l’ha spinta a specializzarsi proprio in dipinti e materiali lignei?
Il pittorico mi ha sempre affascinato per cui scelsi il corso inerente il Restauro dei Dipinti piuttosto che quello sul materiale archeologico (bronzi e terrecotte): allora la formazione non era settorializzata come oggi, e comprendeva tutte le tipologie di decorazioni pittoriche applicate su qualunque supporto. Più avanti, mentre ero già impegnata in Vaticano, sentii anche l’esigenza di specializzarmi ulteriormente e mi laureai in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali presso l’Università della Tuscia.
Qual è stato il progetto di restauro più significativo a cui ha lavorato?
Ogni lavoro ha per me un significato unico, pone domande, chiede attenzione e curiosità a prescindere dalla sua valore storico artistico. Forse citerei l’anomalia del mio inizio carriera con la tesi sulla conservazione dei calchi in gesso (volume pubblicato dalla casa editrice L’Erma di Bretschneider nel 1987) e il restauro di vari calchi e bozzetti del Canova nella Gipsoteca di Possagno: come vede non credo a una specializzazione rigida e limitata ma con il giusto approccio verso l’opera, la sua costituzione materica nonché polarità estetica e storica si può approfondirne la conoscenza ed assicurarne la conservazione. Allora era una tematica agli inizi che ha portato negli anni a considerare rilevanti anche gli oggetti che fanno parte del processo creativo dell’artista e non solo il risultato finale.
Nel ruolo di capo laboratorio ho seguito e coordinato altri lavori bellissimi dove con i miei colleghi, attivi sul campo in prima persona, abbiamo ragionato e accettato sfide in un confronto continuo.
Penso ai cantieri pilota nella Loggia di Raffaello, blindata dagli anni settanta perché con le metodologie del tempo non riuscivano ad intervenire in sicurezza, dove abbiamo risolto la problematica con l’impiego del laser ed un lavoro di cesello sia come pulitura che reintegrazione ridando leggibilità ma con il rispetto del passaggio del tempo.
Cito il cantiere nella Sala Ducale, iniziato come pronto intervento poi sviluppatosi, allargatosi nell’arco di 7 anni fino ad abbracciare anche il difficile lavoro di pulitura e restituzione estetica del drappo berniniano, non previsto inizialmente. Non da meno il cantiere nella sala di Costantino, durato 9 anni, che ci ha permesso di entrare nelle modalità operative della bottega di Raffaello. Ed in questi giorni, mentre svuotavo il mio ufficio, mi sono appassionata allo studio della Pala di Monteluce, di Raffaello e bottega, effettuando sopralluoghi a Perugia, incontrando vari studiosi, organizzandone la movimentazione per la mostra al Museo diocesano di quella città: pur non mettendo le mani sulle opere questo lavoro resta emozionante ed unico.
Ha mai affrontato un intervento particolarmente complesso o delicato? Come l’ha gestito?
Ce ne sono stati molti: ad esempio il restauro del Linteo Funebre dei Musei Vaticani chiamato La Dame du Vatican del III sec. d.C., proveniente da Antinoe, in Egitto (lino dipinto h.173 cm): si tratta dell’unico esempio sul territorio vaticano ed italiano di un lenzuolo funebre dipinto che avvolgeva la mummia con raffigurata una figura femminile intera. Bisognava capire come assicurarne la conservazione senza interagire con i materiali originali, lasciando visibile ogni dettaglio che ne testimoniasse l’uso. Optai il più possibile per materiali naturali, interventi reversibili, possibilità di studio del retro ma tutto utilizzando anche strumentazioni moderne come il tavolo a bassa pressione per limitare stress alla tela depolimerizzata ed al colore decoeso.
Ma la bellezza del mio lavoro è l’eterogeneità delle opere, come materiali e come periodo. Non posso non citare interventi su opere contemporanee che hanno richiesto ancor di più quello che ad un convegno, commentando un nostro intervento, definirono “un approccio olistico”: capire se dettagli tecnici, che in opere antiche sarebbero segno di degrado, in queste sono effetti voluti dall’artista per accentuarne il dramma, valutare se si rischia di snaturarne il messaggio e la volontà dell’artista. Il lavoro su dipinti murali dell’800 o su di opere su tela di Sironi, Buffet o Hantaï mi hanno posto davanti a tanti quesiti sia di interpretazione che di scelte metodologiche, veramente appassionanti.
Come sono cambiati i metodi di restauro negli anni? Ci sono tecniche o tecnologie che l’hanno colpita particolarmente?
In più di 40 anni c’è stata una grande sviluppo all’insegna della salute, dell’ambiente, della compatibilità con i materiali originali, della minima invasività. Porterei l’esempio della strumentazione laser per la pulitura delle superfici senza apportare solventi o mezzi acquosi ma con un procedimento fisico di sublimazione. Abbiamo iniziato ad usarli in modo “massiccio” all’inizio del millennio nel restauro delle decorazioni pittoriche ed in stucco della Cappella Paolina nel Palazzo Apostolico: ne abbiamo impiegati 4, a seconda della tipologia di supporto e delle sostanze sovrapposte, con continui scambi con le ditte produttrici per ottimizzare gli apparecchi. Ne è seguita un’evoluzione esponenziale che ci ha poi permesso dal 2019 di individuare, dopo 50 anni di paralisi, la metodologia di pulitura idonea per la delicata e martoriata Loggia di Raffaello nel Palazzo Apostolico.
Ha contribuito allo sviluppo di nuove metodologie nel laboratorio?
Ho avuto sempre un grande interesse per il nuovo, che vuol dire il più delle volte ricerca e scambio con altre professionalità, anche di settori disparati. Nel caso del restauro del bel polittico di Niccolò di Liberatore detto Polittico di Montelparo, ho interagito per due anni con un architetto, con abilità da fabbro, con il quale abbiamo progettato una nuova struttura di supporto con diverse leghe di acciaio e alluminio per creare un sistema con varie tipologie di ancoraggio che lasciasse libere tutte le parti lignee dipinte o dorate permettendone la rimozione parziale in caso di necessità operando dal fronte e senza alcuno strumento: parliamo di più di 60 elementi per un totale di 8 mq di superficie. Negli ultimi anni abbiamo chiesto la collaborazione di una ditta di restauro con la quale abbiamo realizzato, novità del settore, nuovi telai pieghevoli per oversize paintings che permettano di curvare provvisoriamente il dipinto su tela in occasione di movimentazioni. Come responsabile del laboratorio ho spinto poi i colleghi ad aggiornarsi in vari settori: ultimamente un gruppo sta sperimentando varie tipologie di supportanti per la pulitura al fine di ottimizzare il contatto del solvente con l’opera senza rilascio eccessivo e rischio di ritenzione.
Quanto conta la collaborazione con storici dell’arte, chimici o fotografi tecnici nel vostro lavoro?
È essenziale. Il restauro è conoscenza. Questa viene prima dell’intervento concreto e si arricchisce poi nel procedere del lavoro. Per tutto ciò serve l’interazione con chi ne studia l’aspetto del messaggio, che sia artistico o storico, con chi documenta (le foto storiche ci aiutano tutt’oggi nel capire le vicende conservative), chi indaga su materiali, alterazioni, tecniche. Un mosaico di professionalità che puntano ad un risultato comune.
C’è un’opera restaurata che le è rimasta nel cuore? Perché?
L’Immagine Acheropita conservata nel Sancta Sanctorum, (tavola - recto e verso, e cornice - interno ed esterno, della metà V - VI secolo d.C.) Un opera multi materica, con forte valenza religiosa, che ha portato a collaborazioni con il Laboratorio di Restauro dei Manufatti lignei, il Laboratorio di Restauro Arazzi e Tessuti, il Laboratorio di Restauro Metalli e Ceramiche (tutti dei Musei Vaticani) ed il settore Restauro del cuoio dell’I.S.C.R. Un complesso oggetto di culto, frutto del sovrapporsi, nei secoli, di vari elementi che potevano connotare un aspetto devozionale da capire rispettandone anche la valenza di “reliquia”.
Quali sono le competenze “non tecniche” più importanti in questo ruolo?
Come referente di un laboratorio, costituito da un minimo di 26 restauratori fino a 40 nel caso di cantieri su dipinti murali, serve una capacità di gestione del personale, progettuale, amministrativa, controllo della salute e sicurezza, sviluppo informatico, aggiornamento e condivisione attraverso convegni e pubblicazioni, interazione con i curatori dei reparti ed il settore scientifico.
Come immagina la sua nuova vita in congedo? Progetti, sogni, continuità col passato?
Il laboratorio è stato parte integrante della mia vita per 35 anni e non smetteranno i contatti con alcuni colleghi e curatori che stimo e con i quali ho sintonia di intenti. Potrò finalmente approfondire studi e pubblicare. Farò consulenze scientifiche ed artistiche nel settore della conservazione. Riprenderò l’insegnamento in un campus universitario americano, il Trinity College Rome Campus, dove nel 2006 ho istituito un corso di Art Conservation, che ho dovuto però lasciare al momento della nomina di capo Restauratore. Seguirò convegni per essere aggiornata, mi dedicherò ad un catalogo monografico sul pittore Enzo Catapano. Ma soprattutto condividerò con mio marito interessi, viaggi, ironia, passione per la musica, la cultura, l’arte contemporanea, senza l’affanno degli impegni pressanti. Seguirò l’evolversi della vita di mia figlia Beatrice. Sarò aperta a novità di ogni tipo che rimettano in discussione e mantengano viva la curiosità per ciò che ci circonda ed il desiderio di essere parte attiva per la loro conservazione.